Introduzione minima al verso italiano

 Il verso italiano canonico è prevalentemente accentuativo, cioè si basa sugli accenti della sillaba (e non sulla lunghezza o sull’altezza del suono, come era il caso in latino). Il verso si compone di sillabe metriche, che corrispondono di solito alle sillabe grammaticali. Infatti: 

Sempre caro mi fu quest’ ermo colle (Giacomo Leopardi)

Il verso contiene undici sillabe ed è detto endecasillabo. È da notare che termina con una parola piana, cioè di accento sulla penultima, come la maggior parte dei vocaboli italiani (‘pane’, ‘biada’, ‘pesca’, ‘badile’, ‘marciapiede’). Altri vocaboli, detti sdruccioli, hanno l’accento sulla terzultima sillaba (‘Padova’, ‘merito’, ‘pispola’, ‘donnola’, ‘bambola’) e, se posti alla fine di un verso, lo aumentano di una sillaba, come è il caso nel primo dei due versi seguenti di Ariosto: 

Forse era ver, ma non però credibile 
A chi del senso suo fosse segnore. 

Se invece un verso endecasillabo terminasse con una parola tronca, cioè con accento sull’ultima sillaba (‘pietà’, ‘bontà’, ‘virtù’), allora avrebbe solo dieci sillabe. (Nota: il toscano antico non sopportava le parole tronche e quindi preferiva la variante piana – ‘virtude’ al posto di ‘virtù’ – o aggiungeva una protesi – ‘giue’ invece di ‘giù’, ‘cruccioe’ invece di ‘crucciò’, ecc.). 

Non sempre le sillabe metriche corrispondono alle sillabe grammaticali, però. Quando la vocale finale di una parola è seguita dalla vocale iniziale della successiva, le due sillabe grammaticali formano una sola sillaba metrica, per un fenomeno detto sinalefe (i rari casi in cui, per esigenze di ritmo, il fenomeno non si verifica, si ha invece il contrario, cioè una dialefe). In Leopardi: 

Di quel vago avvenir che in mente avevi. 

È un verso di quattordici sillabe grammaticali, ma di sole undici sillabe metriche. E infatti presenta tre sinalefi, ‘vago avvenir’, ‘che in’ e ‘mente avevi’. Non sono elisioni: il verso si legge com’è scritto. I versi italiani sono di tante misure, ma i due piú diffusi sono l’endecasillabo (di undici sillabe, a seconda delle condizioni già esposte) e il settenario (di sette sillabe, sempre secondo le condizioni suddette). Si combinano molto bene in Leopardi (ma anche nel Tasso lirico): 

Silvia, rimembri ancora 
quel tempo della tua vita mortale 
quando beltà splendea 
negli occhi tuoi, ridenti e fuggitivi, 
e tu, lieta e pensosa,il limitare 
di gioventù salivi? 

Nell’endecasillabo gli accenti sono due (o tre): uno fisso sulla 10° sillaba e uno mobile o sulla 6° o sulla 4° (e in quest’ultimo caso c’è un terzo accento sull’8° o, sempre piú raramente in epoca moderna, sulla 7°). Dopo la parola accentata di 4° o di 6° cade sempre la cesura, che divide il verso in due emistichi. Molto spesso, l’emistichio con accento di 6° ha la dimensione metrica di un settenario, mentre l’emistichio con accento di 4° è come un quinario (con cinque sillabe, fatte salve le condizioni ecc.). Un ottimo esempio di settenari sdruccioli, piani e tronchi è il coro della morte di Ermengarda nell’Adelchi di Manzoni: 

Sparsa le trecce morbide 
sull’affannoso petto, 
lenta le palme, e rorida 
di morte il bianco aspetto, 
stette la pia col tremolo sguardo, 
cercando il ciel.

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